Riccardo Berti
Rinunciare all’intolleranza non significa che si debba tollerare tutto. Per essere credibile, un appello alla tolleranza deve partire da un consenso intransigente su ciò che in una società è considerato intollerabile.
(Tzvetan Todorov, La Paura dei Barbari)
L’approccio a questo breve pamphlet di poco più di 100 pagine era stato assai entusiasta. Infatti, seppur con alcune criticità, una delle precedenti opere di Tzvetan Todorov intitolata “Lo Spirito dell’Illuminismo” ci aveva comunque convinto perché avevamo individuato quel saggio come una delle opere da inserire in una corposa nota bibliografica che aiutasse appassionati lettori a riscoprire la Storia Europea. Già in questa opera si intravedevano concetti ben marcati del pensiero del filosofo bulgaro: “L’illuminismo è la creazione più importante dell’Europa e non avrebbe potuto vedere la luce senza l’esistenza dell’area europea, al tempo stesso una e molteplice. Ora, è altrettanto vero anche l’inverso: è l’illuminismo all’origine dell’Europa, così come la concepiamo oggi. E allora possiamo dire senza timore di esagerare: senza Europa niente illuminismo; e anche: senza illuminismo niente Europa.”[1]
Definire il periodo illuminista – sicuramente considerevole – come il “più importante” rischia da subito di porre la discussione all’interno di un recinto predefinito che impatterà in modo tangibile e criticabile anche nel libro che andiamo a presentare: “La visione positiva del pluralismo si è imposta solo all’epoca dell’illuminismo, in virtù di pensatori come Montesquieu e Hume. Per questo motivo, se fosse necessario ricordare una sola tradizione decisiva per l’emergenza dell’Europa attuale, si tratterebbe dell’eredità dell’illuminismo.”[2]
L’Identità Europea, titolo appunto del saggio scritto da Todorov nel 2009 e di recente riproposto da Garzanti per ricordare l’autore dopo la sua scomparsa nel 2017, è un argomento che ha coinvolto nei decenni, molti intellettuali e certamente può essere un utile stimolo anche per il dibattito sulle piattaforme digitali.
La disputa sulla precisa definizione di identità europea – purtroppo e inevitabilmente – sfocia oggi in ambiti che esulano da quello meramente culturale e filosofico, ma invade anche quello politico, sociale ed economico. I decennali dibattiti sulle istituzioni politiche sovranazionali, le accese ed aspre lotte politiche sulla bontà della moneta unica EUROpea, le mosse delle singole nazioni di uscire od entrare dall’Unione Europea a seconda della convenienza geopolitica o finanziaria, la critica feroce alla tecnocrazia europea colpevole di ingessare le economie locali, e financo le tensioni geopolitiche e sociali ai confini meridionali e orientali del continente, sono tutte questioni che si sovrappongono spontaneamente ad una semplice discussione di tipo identitario, ibridandola ed ammantandola di pulsioni non propriamente culturali. La necessità – e l’opportunità – di individuare un’identità europea sfocia chiaramente nel passo successivo che è quello di domandarsi quali siano gli ambiti per cui un cittadino di questo continente possa compiutamente sentirsi europeo.
Le questioni sul tavolo sono quindi tante, e l’opportunità di dare alle stampe un’opera di ampia diffusione era veramente ghiotta. Purtroppo però, nel caso del libro che oggi prendiamo in esame tale possibilità poteva essere sfruttata in modo molto più efficace. Il passaggio iniziale sulla pluralità delle radici europee forniva tra l’altro degli spunti interessanti: “Non sono mancati, in passato, i tentativi di rendere esplicita la dimensione spirituale e culturale dell’Europa. Così, all’indomani della prima guerra mondiale, il poeta e saggista Paul Valéry ne aveva proposto un’interpretazione capace di riscuotere un certo successo. Definisco europei, diceva in sostanza Valéry, i popoli che nel corso della loro storia hanno subito tre grandi influenze, quelle che i nomi di Roma, Gerusalemme, Atene possono simboleggiare. Da Roma si ereditano l’impero, con il potere statale organizzato, il diritto e le istituzioni, lo statuto del cittadino. Da Gerusalemme, o per meglio dire dal cristianesimo, gli europei hanno ricevuto la morale soggettiva, l’esame di coscienza, la giustizia universale. Infine, Atene ha trasmesso il gusto della conoscenza e dell’argomentazione razionale, l’ideale di armonia, l’idea dell’uomo come misura di tutte le cose. Chiunque possa vantare questa triplice eredità, concludeva Valéry, può a giusto titolo essere considerato europeo.”[3]
Il tentativo di convogliare la disquisizione su questo terreno insidioso ma metapoliticamente e culturalmente convincente non è peraltro nuova. Sestov[4] e Averincev[5] si erano dottamente proposti con tomi di alto livello dove venivano analizzate le contrapposizioni e le vicinanze fra Atene e Gerusalemme, proponendo alcune forzature ma con un ampio spettro contenutistico. Ma ben presto l’autore – sempre incalzato dalla sua vena di illuminista militante – si perde in pedissequo esercizio con il fine di legare l’identità a non necessarie velleità progressiste. Tale supposizione è peraltro confortata in altre fonti dove viene estrinsecata in maniera chiara una posizione che parrebbe squisitamente politica, esercizio che rischia di trascinare il saggista bulgaro su un sentiero troppo limitato e già battuto in altri ambiti editoriali: “Non dovremmo fondare la nostra politica su considerazioni puramente morali. Ci piace pensare che siamo eredi di tradizioni di generosità e che quindi dovremmo aprire le porte. Messa così, sembra che i migranti siano un peso ma noi abbiamo un cuore grande. Invece le cose non stanno in questi termini. Dovremmo accoglierli perché è nel nostro interesse.”[6]
In contrapposizione a questa convinzione, il Prof. Francesco Ingravalle, in un suo complesso e completo articolo sempre del 2016, ha cercato di evidenziare l’attrito tra il concetto di Identità e quello prettamente istituzionale di Unione Europea: “Mercato unico, moneta unica, primato del diritto comunitario hanno garantito, fino a ora, l’unità della governance europea, generando una identità unitaria che si sostanzia nelle quattro libertà e nei corrispettivi valori etico-giuridici. Questa governance è l’esito di uno spillover economico-giuridico ed etico. Un processo, questo, che ha prodotto un’identità non specificamente europea e, soprattutto, che non ha prodotto un’identità nel senso che comunemente, in ambito di studi politici, si attribuisce alla parola “identità”. Se andiamo con la mente ai processi di formazione delle identità all’interno degli Stati europei, troviamo, costantemente, una cultura egemone che ha finito per imporsi sulle altre, come già si è accennato. Una cultura egemone che si è accompagnata a un insieme di interessi economici, geoeconomici e geopolitici assai specifici.”[7]
Ed è sempre lo stesso Ingravalle che si colloca a nostro modo di vedere su un piano totalmente discorde rispetto a Todorov, distinguendosi da buona parte delle intellighenzie europee. Menzionando infatti il contenuto dell’art. 2 del Trattato sull’Unione Europea[8] si mette l’accento su alcune pulsioni di marcato cosmopolitismo: “Il cittadino europeo, come cittadino del mondo, gode della protezione accordata da tali diritti. Di fronte a essi le specificazioni etnologiche, culturali, linguistiche, di genere sono manifestamente inessenziali: i diritti hanno come oggetto l’”essere umano”, le procedure di tutela hanno come oggetto l’essere umano. Ne risulta una identità umana, non semplicemente europea. Si configura, così, una scala che va dalle identità locali, alle identità nazionali, alle identità sovranazionali-regionali, all’identità mondiale, in un “percorso” di sempre maggiore generalizzazione e formalizzazione che corre parallelo alla tendenza delle economie locali, nazionali, sovranazionali-regionali a farsi economia-mondo, e alla tendenza dei diritti locali, nazionali, sovranazionali-regionali a farsi diritto cosmopolitico. E pluribus unum: ma l’unità non ha altra identità che quella umana.”[9]
Le posizioni di Todorov, che oltrepassano quasi il limite di un pernicioso modernismo militante, sarebbero state più serenamente opinabili se coniugate in modalità più simili a quello di un accademico della Sorbona di Parigi, il prof. Rèmi Brague. Nella sua opera Il Futuro dell’Occidente il cattedratico francese dedica un intero capitolo a quella che lui chiama L’Appropriazione dell’Estraneo, dove – quantomeno – l’argomento viene inquadrato in un ambito squisitamente culturale: “La cultura rappresenta ciò che un mondo ha di proprio. Ora ciò che è proprio non è necessariamente presente allo stesso modo. L’Europa si distingue dagli altri mondi culturali per la modalità particolare del suo rapporto con ciò che le è proprio: l’appropriazione di ciò che è percepito come estraneo.”[10] E più precisamente “si possono effettivamente distinguere due tipi di recezione. Propongo di chiamarle l’inclusione e la digestione. Chiamo inclusione l’appropriazione nella quale il corpo estraneo viene mantenuto nella sua alterità e avvolto dal processo di appropriazione la cui presenza stessa fa risaltare la sua alterità; chiamo invece digestione l’appropriazione nella quale esso è assimilato a tal punto che perde la sua indipendenza.”[11]
In un’intervista rilasciata nel 2011 Todorov prima cerca un approccio più simile a quello del Prof. Brague: “Ogni cultura, inoltre, è segnata dal contatto con quelle vicine. L’origine di una cultura si trova sempre nelle culture anteriori: nell’incontro tra più culture di dimensioni minori o nella scomposizione di una cultura più vasta, o nell’interazione con una cultura vicina“[12], salvo poi ritornare su definizioni che rimandano eccessivamente a dialettiche di tipo politico: “Non esistono culture pure e culture mischiate; tutte le culture sono miste («ibride» o «meticce»). I contatti tra gruppi umani risalgono alle origini della specie e lasciano sempre tracce sul modo in cui i membri di ogni gruppo comunicano tra loro. Per quanto lontano si possa risalire nella storia di un Paese come la Francia, si trova sempre un incontro tra più popolazioni, dunque più culture: galli, franchi, romani e molti altri.”[13]
Un approccio più sereno avrebbe dovuto condurre l’autore ad allargare l’orizzonte della questione e a sottolineare che il preciso momento storico che stiamo vivendo – in cui è la Techné a dettare legge – non permette di poter confrontare precedenti epoche della Storia Europea con quella attuale, in particolar modo per il turbinoso processo di globalizzazione/omologazione culturale e sociale che pervade ormai l’intero pianeta, e da cui l’Europa certamente non si sta esimendo.
Peraltro l’intento del saggista bulgaro di de-ideologizzare il dibattito sull’identità europea ed allontanarlo da inutili nazionalismi intra-continentali ci trova sicuramente d’accordo ma il perdersi in dissertazioni che vanno ad incanalarsi nell’alveo del dibattiti religiosi di già non facile percorrenza (su un piano già ampiamente e assai discutibilmente affrontato da Huntington[14] per non parlare della combattiva Oriana Fallaci[15]) non facilita il fine ultimo di determinare il concetto di Identità Europea: “L’idea stessa di fondare l’identità europea esclusivamente sulla storia di questo continente potrebbe essere messa in discussione. L’identità collettiva può ridursi alla sola fedeltà al passato? Come abbiamo visto, non esiste un’identità collettiva immutabile, stabilita una volta per sempre. Quelli che sostengono il contrario partecipano abitualmente a un progetto politico ben preciso: vogliono dare un contenuto sostanziale alla nostra identità per legittimare l’esclusione di tutti quelli che non la condividono. Questa strategia è adottata oggi dai partiti europei di estrema destra. Nazionalisti ferventi sul piano istituzionale (si oppongono accanitamente a ogni rafforzamento dell’Unione europea) si scoprono in compenso pro europei su quello culturale, che definiscono una semplice eredità del passato. Per loro, dire che l’Europa è cristiana diventa un argomento ulteriore per vietare questo territorio ai musulmani. Essi si richiamano volentieri anche al pensiero dell’illuminismo, che considerano un semplice rifiuto della fede: un altro mezzo per escludere i fedeli dell’islam, perché le altre religioni oggi non suscitano altrettanta devozione.”[16]
Come si può osservare lo storico purtroppo altro non fa che autoinvitarsi al quel tavolo politico con cui lui stesso polemizza ossia quello più confacente a opinioni permeate di nazionalismo radicale o sciovinismo locale. L’universalismo europeista dell’autore appare talvolta pernicioso: “…si confonde la cultura europea (particolare) con i valori morali e politici che, come abbiamo visto, hanno una vocazione universale. Lo stesso vale per l’idea di democrazia e di diritti umani, per la razionalità scientifica e tecnica, oggi appannaggio dell’umanità intera. Da un lato, dunque, quello delle culture e delle opere, le tradizioni nazionali o regionali prevalgono sulla tradizione europea, come la diversità sull’unità. L’idea di costituire un canone culturale europeo, comune e immutabile, è insostenibile. (…) Dal lato dei valori, invece, questa tradizione si dissolve nell’universalità. La ricerca stessa di un nucleo irriducibile si rivela problematica. Siamo allora condannati a rinunciare all’idea di un’identità europea?”[17]
Il terreno del dibattito accademico si fa sempre più aspro; si potrebbero citare ad esempio le affermazioni dell’antropologa Ida Magli che sono di ampia critica verso la religione islamica e i fenomeni migratori che ne deriverebbero: “Non c’è bisogno del resto di ricorrere a motivi specifici per esser sicuri che i musulmani provenienti dall’Africa cancelleranno ogni ricordo della civiltà europea. (…) La causa è evidente: il senso della storia, la consapevolezza oggettivante del proprio esistere e il piacere di conservarne la memoria, la scoperta della storia come coestensiva alla vita è una delle maggiori conquiste dell’Occidente. (…) Questa coscienza storica fa parte di un sistema culturale fondato su due fattori essenziali: il tempo in divenire e il valore della vita del gruppo. Due fattori che hanno formato e formano la ricchezza straordinaria della civiltà europea.”[18] La Dott.ssa Magli, scomparsa nel 2016, non ha fatto in tempo a constatare che le sue previsioni erano troppo catastrofiche e non basate su nessun assunte geopolitico. Nessun fenomeno migratorio ha distrutto i simboli della civiltà europea – almeno per ora – e casomai son stati gli stessi Europei a mettere a repentaglio uno dei simboli iconici della tragedia del nostro tempo: l’incendio alla Cattedrale di Notre Dame de Paris.
Altro esempio, ancora più radicale, è quello di Alexandre Del Valle, che negli stessi anni in cui Todorov si spingeva in teorizzazioni alquanto moderniste, confezionò un’opera densa di livore novecentesco e di molte superficialità geopolitiche, arrivando perfino a teorizzare un fantomatico PanOccidente: “Sarà basato sull’unione strategica, economica, militare e civilizzazionale delle sue quattro maggiori componenti (Europa Occidentale, Americhe, Mondo-slavo-ortodosso-Russia, Australia-Nuova Zelanda) (…) l’Occidente allargato corrisponde in senso filosofico e civilizzazionale alla Bibbia sommata dei Greci. In altre parole riunisce l’insieme dei paesi di origine europea formati dal pensiero greco-ellenistico-romano e dal contributo monoteistico giudaico-cristiano”.[19]
Appare chiaro quindi, che anche il dibattito culturale di sponde intellettualmente opposte è ricco di esagerazioni e non aiuta il fine ultimo di individuare un meccanismo di tutela della identità europea. La postmodernità – che invade tutti i campi compreso quello culturale – crea non poca difficoltà per muoversi in un ambito anche filosofico che non scada né in revanscismi reazionari né in inutili esercizi di retorica pluralista.
E’ senza dubbio però vero che esistono delle élite intellettuali che per puro spirito di schieramento si astengono dal confermare che in Europa esista un cammino e un’eredità comune fatta di valori, di memoria condivisa (anche tragica), riuscendo peraltro ad originare un pericoloso esercizio di appiattimento modernista che non corrisponde alla realtà, nonostante che il continente sia attraversato da pulsioni normative e culturali di esclusiva origine finanziaria e globalizzatrice con un nemmeno poi tanto velato intento modernista ed omologatore. D’altro canto sarebbe anche grottesco negare la sovrapposizione di identità minori (ma pur sempre europee) che spesso hanno influenzato la storia degli stati e delle entità imperiali, e quindi si dimostra errato respingere l’idea che questa pluralità di eventi e di diversità antropologiche non sia stato un surplus per lo sviluppo della moderna identità europea.
Anche se il tentativo di Todorov di velare il suo saggio di un politically correct produce un risultato alquanto mellifluo: “I paesi o le culture che coabitano in Europa, tuttavia, non si sono accontentati di una reciproca tolleranza, ma si sono impegnati in interazioni più strette. Abbiamo visto Montesquieu insistere sugli effetti positivi della coesistenza: provoca emulazione e competizione, ciascuno tenta di dimostrare che vale come il suo vicino o perfino di più. Hume aggiungeva un ulteriore beneficio, lo sviluppo dello spirito critico: grazie alla distanza che lo separa dalla cultura che esamina, il suo osservatore non condivide gli stessi «pregiudizi».”[20]
Una visione romantica che mal si addice alla storia europea, da sempre fucina di immani tragedie sanguinarie, ma anche di momenti epici e di meravigliosi esercizi diplomatici, ancorché di disastri quali lo scoppio del primo conflitto mondiale successivo ai fatti di Sarajevo del 1914.
Come si è potuto ben osservare gli schieramenti in campo intellettuale sono eterogenei e anche connotati di forte messianismo vuoi religioso vuoi politico. Peraltro la sovrapposizione dei concetti di Europa ed Occidente ci porterebbe talmente lontano e non è questa la sede per affrontare una questione che merita un approfondimento specifico. A titolo di esempio menzioniamo chi – in ambito accademico – ha provato a ragionare cum grano salis.
In un interessante dibattito del 2019, Il Prof. Bastianin Luiss School of European Political Economy, certamente non molto distante dal pensiero di Todorov, ha cercato di spiegare in maniera più complessa la questione: “Anche avvicinandoci a noi, nel dopoguerra, la sconfitta stessa ci ha imposto di trovare nuovi metodi di convivenza. Le stesse logiche odierne, che è curioso rivedere nella creazione delle infrastrutture, dei contratti, nascono da quella matrice romana non di contrapposizione con i popoli conquistati, come succedeva per i Greci, ma nella creazione di una società, una rete di alleanze”. I romani “dopo il combattimento non si ritiravano in sé stessi e nella loro gloria, tra le mura della loro città, ma avevano acquisito qualcosa di nuovo, una nuova sfera politica garantita per contratto, nella quale i nemici di ieri diventavano gli alleati di domani”, come scrive Arendt. Così, mentre il nomos greco era un confine che separava, la lex romana era un contratto che metteva in relazione. “Se esiste un’identità è quella autocritica di chi ha riconosciuto i propri errori”[21].
E più precisamente, in merito ad una storia europea certamente inclusiva: “Se fino a poco tempo fa potevamo non occuparci di identità perché eravamo convinti che il solo fatto di avere commerci e frontiere aperte, avrebbe creato un allineamento tra regioni ricche e povere – cosa che il mercato unico ha in parte creato, in effetti – l’economia oggi è diversa. Invece di produrre convergenza, da quando la nuova tecnologia ne ha modificato in profondità il contenuto, l’economia crea divergenze. Con il contenuto tecnologico e l’immaterialità è cambiata anche la struttura del capitalismo. Come funziona lo si vede nelle statistiche, dove l’aumento di ricchezza delle città leader non coincide più con l’aumento del livello mediano del resto del paese. Qui si apre una divergenza, che oggi è molto più accentuata di prima, al di là delle colpe o responsabilità dei singoli amministratori. Basta pensare a zone come il centro di Londra dove, secondo l’Eurostat, il pil pro capite è sei volte quello Ue. Oppure ad Amburgo e Bruxelles, al Lussemburgo, a Dublino e all’Alta Baviera che sono tra le più ricche d’Europa. Ma anche Bratislava e Praga, che surclassano la Lombardia e pure Stoccolma. Esistono, in queste e altre aree, aggregati di ricchezza che non ci fanno più pensare che in un futuro prossimo saremo tutti in condizioni molto omogenee di benessere, con strutture sociali simili.”[22].
In tal senso riteniamo definitiva l’opinione di Georges Lefebvre che toglie dalla discussione qualsiasi patina di buonismo: “Noi sosteniamo che, ad esempio, lo spettacolo del pensiero nella sua diversità, e dei risultati disastrosi della violenza contro questa o quella di codeste inamovibili morali è la migliore lezione di tolleranza che si possa concepire. Noi riteniamo che mostrare in che modo la Francia si sia formata grazie a tanti casi fortunosi, a prezzo di tanti e diversi sacrifici per superare le sorti avverse, è il mezzo migliore per attirarle il rispetto dei futuri cittadini e di infondere in essi il sentimento di responsabilità che spetterà loro. [..] Lo storico insegna che essa è stata creata, che è cresciuta, che può sparire se quelli che verranno non la conserveranno; è proprio in ciò la forza più vigorosa dello spirito civico.”[23]
Nella seconda parte del saggio Todorov affronta alcuni temi ancora più spinosi, ossia l’Europa all’interno dell’Occidente e dell’annoso rapporto fra Europa e Stati Uniti. E qui le contraddizioni si notano tutte. Se da una parte si sottolinea l’ennesimo ricorso alla Ragione (sic) da parte degli Stati Europei (opinione alquanto opinabile specie se si pensano ai recenti interventi umanitari/militari con copioso impiego di truppe europee in teatri mediterranei o del Medio Oriente): “Gli europei sembrano avere una coscienza nazionale meno orgogliosa di quella statunitense, grazie tra l’altro a una più forte presenza del passato nella loro memoria. Sanno che i loro stati hanno assunto, in passato, decisioni politiche catastrofiche, come l’instaurazione di dittature, lo sfruttamento dei popoli sottomessi. Ciò spiega forse perché il riflesso autocritico sia più diffuso nei paesi europei che nella società d’oltreoceano. Si potrebbe vedere in questa una delle ragioni per cui l’Unione europea e la popolazione dei suoi stati membri non abbiano più mire imperialistiche. Sono stati tentati da queste idee nel XIX e all’inizio del XX secolo, ma ne sono rimasti scottati e sofferenti (…) I paesi europei, in maggioranza, hanno rinunciato ad assicurare la propria difesa e preferito proteggersi dietro lo scudo della NATO, l’organizzazione militare del trattato dell’Atlantico del Nord, posta sotto il controllo degli Stati Uniti. Talvolta, hanno mostrato alcune reticenze a seguire la politica estera di questi ultimi, ma, incapaci di assumere interamente le proprie scelte, si sono dovuti allineare a questa politica, anche se malvolentieri. Hanno perfino preso parte, senza clamori, alla «guerra contro il terrorismo» (l’abbiamo visto a proposito della tortura) e accettato la trasformazione della NATO: da forza destinata a mantenere la sicurezza in Europa, l’organizzazione è diventata un esercito promotore degli interessi dell’Occidente ovunque nel mondo.”[24]
Dall’altra si critica opportunamente i precetti della dottrina Responsability to Protect[25] di etichetta ONU ma di chiara origine statunitense: “Rendere il nemico un diavolo, atteggiamento sotteso alla scelta degli Stati Uniti, e ricorrere all’«angelismo», comportamento talvolta presente nel dibattito europeo, sono strumenti inadeguati ad accogliere le sfide lanciate dalla pluralità delle società umane. Per ciò che concerne gli Stati Uniti, il loro tentativo egemonico dovrebbe essere temperato dall’accettazione della pluralità del mondo, del suo carattere inevitabilmente multipolare. Sarebbe nel loro stesso interesse ricercare uno stato di coesistenza e di equilibrio: che le differenti potenze siano sufficientemente forti per impedire ogni tentativo di aggressione, ma non abbastanza influenti per mantenere situazioni di predominio. Il loro obiettivo dovrebbe essere la stabilità dei compromessi, resa evidente con la firma di accordi, il rispetto dei trattati internazionali e la rinuncia all’uso preventivo della forza. Dal canto suo, l’Europa accetterebbe di essere, come uso dire, una «potenza tranquilla», vale a dire una potenza priva di un qualunque progetto imperiale, ma che non rinuncia affatto alla capacità di colpire l’avversario per difendersi. Dovrebbe disporre di una forza militare, perché il mondo non sarà mai definitivamente pacificato e tale forza dovrebbe essere sua, perché i suoi interessi non coincidono con quelli di nessun’altra parte del mondo.”[26]
Sul concetto di Impero e Imperium – Todorov parla di progetto imperiale alludendo ad una matrice negativa – la discussione ci porterebbe lontano, ma ci piace in questa sede citare l’intellettuale Giorgio Locchi che ebbe a dire: “La soluzione «imperiale», lo ripetiamo, è gerarchica. Se la libertà, nella dialettica ugualitaria, non è che un assoluto che si oppone ad un altro assoluto (la negazione della libertà), nella dialettica «imperiale», essa non è che un relativo, direttamente legato alla nozione di responsabilità sociale. Nell’imperium, l’assoluto è il diritto del migliore secondo la virtù dell’umanità del suo tempo. Ma l’imperium è anche il solo mezzo di preservare le differenze dentro (e attraverso) una prospettiva planetaria, tramite un unicuique suum che riconosce implicitamente il fatto fondamentale dell’ineguaglianza dei valori e delle identità.”[27] Concetti peraltro già proposti anche in chiave geofilosofica dal politologo Jean Thiriart in alcuni interessantissimi scritti[28] degli anni 90.
Il finale del saggio di Todorov non aggiunge nulla alle considerazioni sopra espresse e rende l’idea dell’occasione mancata: “La barbarie, in senso assoluto, consiste nel non riconoscere l’umanità degli altri, mentre il suo contrario, la civiltà, è precisamente la capacità di vedere gli altri come altri e ammettere nello stesso tempo che sono umani come noi. Se l’identità europea, a sua volta, si definisce con una gestione oculata della pluralità – quella degli stati membri, delle opinioni politiche e delle scelte economiche, delle tradizioni culturali – non si potrebbe affermare che l’idea di civiltà si confonde con quella di Europa? Alcuni non hanno esitato a farlo, ma non li seguirò su questa via. Infatti, bisogna constatare che la storia dell’Europa è anche quella dei conflitti, delle persecuzioni e delle guerre – non è che gli europei siano stati più barbari degli altri popoli del mondo, come dicono talvolta in accessi di autodenigrazione, ma perché la storia umana è sempre stata così.”[29]
In definitiva un libro – a nostro avviso – piuttosto modesto, troppo intriso di Illuminismo quasi attivista, che magari nell’intento dell’autore viene giustificato dall’esigenza di perseguire un cammino culturale europeo comune ed inclusivo ma che alla fine si rivela un pamphlet semplicemente denso di retorica con un modesto intento accademico e fin troppo divulgativo.
Per rendere meno ordinarie talune considerazioni si sarebbe potuto prendere spunto dalle teorie di Gadamer: “Per coscienza storica intendiamo il privilegio dell’uomo moderno di avere piena consapevolezza della storicità di ogni presente e della relatività delle opinioni. Avere senso storico significa pensare espressamente all’orizzonte storico che è coestensivo alla vita che noi viviamo e che abbiamo vissuto”[30]. Ciò implicava in Gadamer anche confrontarsi con il passato: “Quando chiamiamo classico lo facciamo invece in base a una coscienza di permanenza, di indistruttibilità, in base al riconoscimento di un significato indipendente da ogni situazione temporale; classico è così un specie di presente fuori dal tempo, che è contemporaneo a ogni presente.”[31] Porre la questione identitaria sul piano della coscienza storica ci pare quantomai opportuno, rilevando anche il fatto che il processo che porti ad un ampio consenso di prospezione della Cittadinanza Europea (e quindi un deciso passo verso un’identità comune), non possa altro che passare tramite il pieno riconoscimento di un processo politico fondativo a livello continentale, processo che evidentemente i vari trattati che si sono susseguiti dal 1957 in poi[32] non sono ancora stati capaci di finalizzare.
Il Prof. Cardini in un dotto ed agile saggio del 2019 ci ricorda che il processo di integrazione europea – evidentemente ancora non maturo per una miriade di problemi strutturali – si è inopinatamente interrotto: “Bisogna dire che, specie dopo il deplorevole fallimento del decollo di una Costituzione Europea che si è fermata al preambolo scivolando sulla buccia di banana dell’affermazione o meno di “radici cristiani” alla base dell’identità europea e della sua storia, la fiducia nella volontà e nella capacità dell’UE di trasformarsi in una realtà politica è venuta del tutto meno”.[33] Anche Cardini, peraltro, ritiene che il problema dell’identità europea sia altamente complesso e lo incanala giustamente in una sfera più ampia: “Siamo, in altri termini, all’Anno Zero dell’unità politica europea. L’Unione Europea non ha in fondo fallito ai suoi compiti, in quanto essi sono sempre stati di natura economica e finanziaria; ha conseguito traguardi d’integrazione importante quali l’abolizione dei dazi di frontiera, l’adozione di tariffe comuni per le importazioni, l’adozione di una moneta comune e vari provvedimenti di finanziamento importante di organi ed iniziative quali i programmi universitari Erasmus. Il punto è che i popoli europei hanno sperato per lunghi anni che tutto ciò conducesse anche, in tempi ragionevolmente rapidi, a un’unità politica: Pe essa, com’è noto, sono necessari quattro elementi: la “bandiera”, vale a dire l’identità politica istituzionale”; la “toga”, vale a dire quella giuridica e giurisdizionale”, la “spada”, vale a dire il sistema comunitario di difesa”; la “moneta”, vale a dire una valuta unica. Solo il quarto di questi elementi esiste oggi: ed è garantito dalla Banca Centrale Europea, che non è soggetto di diritto pubblico. Si è parlato per lungo tempo, e si parla ancora, di un “esercito europeo”: ma per il momento ci si è limitati a obbligare qualunque stato intenda aderire all’UE ad aderire altresì alla NATO, organizzazione militare alla quale partecipano anche gli USA e che, nata per fronteggiare la potenza sovietica, non ha ancora trovato dopo la dissoluzione di essa il modo di ridefinire e di rilegittimare i suoi obiettivi, restando tuttavia egemonizzata da una potenza extraeuropea, gli Stati Uniti. Nel corso della “guerra fredda”, e poi durante gli anni che hanno assistito al crescere della preoccupazione per un vero o supposto “problema islamico”, si è fatto strada un comune, crescente sentimento di semi-identificazione tra un’Europa del cui carattere istituzionale di potenza politica non si parlava più e un concetto politico-culturale vago ed ambiguo, l’Occidente.”[34]
Lo storico fiorentino opportunamente inquadra la questione anche in un cristallino ambito geopolitico, laddove la pedissequa ricerca di un’unità politica europea – senza dubbio influenzata dalle fratture storiche che sempre hanno attraversato il nostro continente – ha subito in maniera pesante nel XX secolo l’influenza della egemonica americana. I due conflitti mondiali (per molti storici ormai un unicum temporale) non hanno fatto altro che inasprire queste fratture e gli eventi successivi al conflitto – incistati nella Guerra Fredda peraltro oggi tornata di stretta attualità geopolitica – hanno ritardato (e speriamo non compromesso) il percorso federativo europeo, osteggiato sicuramente dagli Stati Uniti, ma anche pervicacemente dalle élite finanziarie mondiali, i cui interessi non sono certamente quelli di supportare un solido blocco continentale.
Lo stesso Todorov peraltro prova a formulare qualche idea pratica per l’attuazione di un percorso comune:” I criteri espliciti per unirsi all’Unione si riducono a tre esigenze, nessuna delle quali permette di fissare le frontiere definitive dell’insieme. La prima è di ordine formale e giuridico: lo stato candidato deve accettare tutto il posseduto comunitario in materia di leggi, norme e trattati. La seconda è politica: deve essere uno stato di diritto, una democrazia liberale, vale a dire garantire l’uguaglianza rigorosa dei diritti di tutti – senza alcuna discriminazione razziale, etnica, religiosa, sessuale, dunque anche un suffragio universale effettivo – la libertà e la sicurezza degli individui contro ogni usurpazione proveniente sia da altre persone, sia dallo stato stesso. Libertà garantita dal pluralismo non solo dei partiti, o dei mezzi di informazione, ma anche delle sfere della vita: pubblica e privata, politica ed economica e così via. Infine, il terzo criterio è economico: solo gli stati provvisti di un’economia di mercato e di un certo livello di sviluppo possono chiedere di entrare nell’Unione europea; uno stato troppo povero rispetto agli altri non vi troverebbe posto.”[35]
Il percorso politico, per forza o per scelta, sarà primario rispetto ad ogni altri tipo di esperimento. Almeno due millenni di storia ci portano indiscutibilmente a considerare l’Europa come una civiltà ben definita da un sistema di valori consolidato. Il dibattito fra tecnocrazia e sovranismo riempie da diversi anni i dibattiti politici senza aver mai trovato una soluzione politica, quantomai difficile in un mercato globale dove la pressione delle Multinazionali è un fardello pesante per gli Stati Nazionali. L’economia, anche qui scelta senza dubbio dolorosa, la fa da padrone e scelte anche difficili sovrastano qualsiasi sforzo di unità culturale.
Il mondo globalizzato e multipolare necessita di risposte veloci. Coniugare le necessità geopolitiche e finanziarie con la tutela delle pluralità identitarie già presenti in Europa è la vera sfida. La mondializzazione del pianeta è un processo già abbastanza visibile ma le sfide a livello geopolitico saranno sempre maggiori e questa centrifuga (ben visibile in Europa più che in altri continenti) non faciliterà certamente il percorso. E proprio in questo viaggio vanno coinvolti tutti gli stati europei da Capo Nord fino all’ultima isola del Mediterraneo, senza muoversi su piani politici e finanziari assai pericolosi che vorrebbero dividere l’Europa fra virtuosi e difficoltosi.
Se non saranno risolti i nodi politici ed economici a livello europeo, se molti dei cittadini del nostro continente ancora si sentiranno dentro un recinto soffocante, se non verrà creata ed implementato un network culturale a livello continentale, che includa università, istituti di ricerca, poli museali, Ministeri Nazionali della Cultura, ossia attraverso la creazione di una rete che superi le mere necessità turistiche e che vada oltre al sistema Erasmus, sarà quindi molto difficile convincere i cittadini europei che la loro identità è comune. La cittadinanza amministrativa purtroppo non basterà. Questo avrebbe dovuto affermare Todorov; questa la vera sfida.
21.02.2022
Edizione presentata: Tzvetan Todorov, L’Identità Europea, collana I Piccoli Grandi Libri, Garzanti, Milano, prima edizione 2009, edizione digitale 2019.
Note
[1] Tzvetan Todorov, Lo Spirito dell’Illuminismo, Garzanti, Edizione Digitale 2015.
[2] Tzvetan Todorov, L’Identità Europea, Garzanti, Milano, 2009
[3] Tzvetan Todorov, ibid;
[4] Lev Sestov, Atene e Gerusalemme, Il Pensiero Occidentale, Bompiani, 2005.
[5] Sergej Sergeevǐc Averiňev, Atene e Gerusalemme – Contrapposizione e incontro di due principi creativi, Donzelli Editore, 2001
[6] Tzvetan Todorov: «Dobbiamo accoglierli perché è nel nostro interesse», intervista di Stefano Montefiori, apparsa sulla rivista digitale Vita e pubblicata il 21 Marzo 2016, http://www.vita.it/it/article/2016/03/21/todorov-dobbiamo-accoglierli-perche-e-nel-nostro-interesse/138718/
[7] Francesco Ingravalle, I risvolti istituzionali dell’identità europea, De Europa, Vol. 3, No. 1 (2020), pg. 42.
[8] “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti alle minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.” (Trattato sull’Unione europea – https://eur-lex.europa.eu)
[9] Francesco Ingravalle, ibid; pg. 45
[10] Rèmi Brague, Il Futuro dell’Occidente, Bompiani, 2005, pg. 101.
[11] Rèmi Brague, ibid; pg. 113.
[12] Tzvetan Todorov, La nostra identità una e centomila, La Stampa, 10 Marzo 2011 https://www.lastampa.it/cultura/2011/03/10/news/todorov-la-nostra-identita-br-una-e-centomila-1.36974313
[13] Tzvetan Todorov, ibid.
[14] Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, traduzione di Sergio Minucci, Garzanti, Milano, 2000,
[15] Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, in Corriere della sera, 29 settembre 2001
[16] Tzvetan Todorov, L’Identità Europea, Garzanti, Milano, 2009
[17] Tzvetan Todorov, Ibid;
[18] Ida Magli, Dopo l’Occidente, RCS Libri, Milano, 2012
[19] Alexandre Del Valle, VerdiRossiNeri, Lindau, Torino, 2009
[20] Tzvetan Todorov, Ibid;
[21] Enrico Cicchetti, Cosa vuol dire essere europei. Un dibattito sulla nostra identità, Il Foglio, 03/12/2019.
[22] Ibid.
[23] Georges Lefebvre, Riflessioni sull’insegnamento della Storia, L’Education Nationale, 1946.
[24] Tzvetan Todorov, ibid;
[25] https://www.globalr2p.org/what-is-r2p/
[26] Tzvetan Todorov, ibid;
[27] Giorgio Locchi, Impero e Nazione nella Storia d’Europa, Laboratorio Barbadillo, 2014, https://www.barbadillo.it/30636-cultura-di-giorgio-locchi-impero-e-nazione-nella-storia-deuropa/?fbclid=IwAR1H2LTN1iJZEiVNrfoHpt1Q9e4GWusx6u_gfc8gLTijJogAwzqKohmKoqc
[28] Jean Thiriart, L’Europa fino a Vladivostok, Orion, n. 96, settembre 1992, pp. 11-23
[29] Tzvetan Todorov, ibid;
[30] Hans-George Gadamer, Il problema della coscienza storica, Guida, Napoli, 1969
[31] Hans-George Gadamer, ibid;
[32] I trattati di Roma firmati a Roma il 25 Marzo 1957 portarono all’istituzione della CEE e dell’EURATOM.
[33] Franco Cardini, Per un sovranismo europeista, Vision & Global Trends – International Institute for Global Analyses, 2019
[34] Ibid.
[35] Tzvetan Todorov, ibid;