Mar. Dic 3rd, 2024

All’indomani della morte di Stalin, la questione delle ammissioni all’Onu di quelle nazioni ancora escluse dal massimo consesso internazionale fu quasi accantonato, per evitare che, in un momento in cui stavano aprendosi spiragli per una possibile distensione internazionale, ci fossero motivi di frizione tra le due super-potenze. Non è quindi azzardato sostenere che da ambo le parti si preferì sacrificare sull’altare di una futura collaborazione pacifica, che con l’incontro a Ginevra tra i quattro grandi del luglio 1955 aveva mosso i suoi primi passi, una questione che, tutto sommato, poteva benissimo attendere momenti più propizi.

Effettivamente il dopo-Stalin fu segnato da un certo ammorbidimento di posizioni, da un clima internazionale più disteso, da quello che da più parti venne definito «lo spirito di Ginevra», spirito senza dubbio più collaborativo se fu possibile raggiungere un’intesa per la ripresa dei lavori della Commissione Onu sul disarmo, per risolvere la questione tedesca che si protraeva dalla fine del conflitto e prendere in considerazione vecchi probleami coloniali come quello marocchino e tunisino[1].

Anche per l’Italia il periodo compreso tra il settembre 1953 e la fine del 1954 fu denso di trattative diplomatiche e scelte di grande significato politico. Dopo la fine dell’era De Gasperi, giaceva ancora sul tappeto uno dei più gravi problemi per la politica estera italiana: l‘irrisolta questione di Trieste. Il problema si era ulteriormente complicato a partire dal giugno del 1948, quando Tito ruppe i suoi rapporti con il Cominform e con l’Unione Sovietica. Tale fatto comportò da un lato la fine dell’incubo yugoslavo, cioè della paura, nutrita da molti dirigenti politici italiani, di vedere un paese spalleggiato dai sovietici minacciare da vicino l’incolumità della penisola. D’altro canto, però, si profilò la possibilità, poi verificatasi, di un ammorbidimento delle posizioni occidentali nei confronti del regime di Tito. Quest‘ultima evenienza ebbe come conseguenza il venire meno dell’impegno tripartito del 20 marzo 1948 con il quale Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia promisero di appoggiare di appoggiare le richieste italiane su Trieste. La mossa della Dichiarazione Tripartita si dimostrò essere un espediente elettorale delle potenze occidentali a favore dei partiti di centro alla vigilia delle elezioni dell’aprile 1948 e una risposta ad una presa di posizione sovietica, tesa ad appoggiare le richieste dell’Italia sulla definizione dello status delle sue ex colonie.

Venendo quindi meno quell’impegno delle potenze occidentali, desiderose ormai di conquistarsi i favori di Tito, la questione di Trieste si dibattè, tra speranze, delusioni e contatti diplomatici tra Roma e Belgrado, fino al settembre del 1953, quando il problema della città giuliana si riaccese in seguito al proclama del Presidente del Consiglio Pella di indire un plebiscito per accertare la reale volontà degli abitanti del Territorio Libero di Trieste. Il TLT era stato infatti diviso in due zone: la zona A, controllata da truppe americane ed inglesi, e la zona B dove invece erano di presidio le truppe titine e dove a più riprese si erano verificati episodi di violenza e di intolleranza nei confronti della popolazione di lingua italiana. La mossa di Pella, probabilmente frutto della necessità di rafforzamento del suo esecutivo all’indomani della caduta dell’ultimo ministero De Gasperi, sortì però effetti negativi, facendo irrigidire ancora di più le posizioni degli yugoslavi, che dichiararono di considerare l’eventuale presenza di soldati italiani nella zona A come un atto di aggressione contro il loro paese.

Il momento più acuto della crisi si ebbe con i sanguinosi scontri del 6 novembre ’53, quando una manifestazione nazionalistica italiana che si svolgeva a Trieste fu violentemente dispersa dalla polizia. Da questi fatti ebbe comunque inizio la spinta decisiva alla soluzione della questione, con le trattative di Londra del febbraio 1954 e la firma del Memorandum d’Intesa del 5 ottobre 1954, che permise all’Italiadi riprendere la citta di Trieste e la Zona A del TLT, lasciando alla Yugoslavia quasi tutta la Zona B. Nel frattempo, sempre nell’ottobre del 1954, dopo il fallimento della Comunità Europea di Difesa, sacrificata per la volontà francese di non accettare il riarmo della nazione tedesca, nacque a Parigi l’Unione Europea Occidentale, al quale l’Italia aderì nel marzo del 1955, a testimonianza della sua tenace volontà di favorire la costituzione di un’Europa economicamente e politicamente coesa.

Il fatto nuovo che all’Onu poteva sbloccare la situazione della mancata ammissione dell’Italia al massimo consesso internazionale andava profilandosi come appendice alla conclusione del trattato austriaco, giacchè in esso le potenze vincitrici si erano impegnate a favorire l’ingresso dell’Austria all’Onu con una decisione identica a quella assunta nel trattato italiano. Era comunque evidente che non ci si doveva far ingannare da una simile identità di posizioni per riprendere l’azione diplomatica a favore dell’ammissione italiana singolarmente intesa, poichè una simile mossa non avrebbe portato a nulla e, anzi, avrebbe costituito di certo un fattore di disturbo del processo distensivo in corso.

 

Da parte italiana si comprese che non si doveva mordere il freno e che era necessario attendere che una proposta per l’ammissione austriaca venisse avanzata in modo da farne un «elemento di rottura di una situazione generale di cristallizzazione»[2]

Questa posizione di prudente attesa di Palazzo Chigi non era comunque condivisa dall’opposizione parlamentare socialista, comunista e missina che, per bocca dei suoi esponenti, incalzò il nuovo governo presieduto dal democristiano Segni, accusandolo di ececssivo attendismo. In particolare, Pietro Nenni, nel suo intervento in occasione della presentazione di quel Ministero il 15 luglio, chiese esplicitamente «..una politica realistica per l’Onu tale da conciliare l’opposizione dell’Unione Sovietica alle ammissioni singole e degli Stati Uniti alle ammissioni in blocco»[3], evidenziando come il problema dell’ingresso dell’Italia alle Nazioni Unite fosse tornato prepotentemente in auge anche nelle aule parlamentari. Segni smorzò comunque le impazienze dell’opposizione, affermando che la posizione dell’Italia nei riguardi dell’Onu sarebbe rimasta ferma alla richiesta di ammissione, senza sollecitare una nuova discussione in merito, per non rimanere nella condizione di «eterno postulante»e che l’iniziativa per le ammissioni spettava ormai ai «grandi» e non più agli aspiranti.[4]

Del resto, la posizione del governo italiano era funzionale non solo alle già ricordate esigenze della distensione internazionale, bensì rifletteva quello che era l’atteggiamento dell’opinone pubblica in merito al problema. Difatti, come sottolineò la rivista Esteri, non si poteva dire che l’ingresso dell’Italia all’Onu fosse un’esigenza diffusamente sentita dall’opinione pubblica nazionale, che da un lato si era stancata di un’attesa più volte delusa, e dall’altro aveva dimenticato questa assenza con la constatazione di un’assidua presenza nelle più importanti agenzie della stessa Onu. Ciò era tanto più vero ove si consideri che, tutto sommato, i vantaggi di una presenza italiana alle Nazioni Unite non era più di primaria importanza, visto che i pregiudizi derivanti dalla sua esclusione si erano ormai irrimediabilmente consumati (vedi il destino delle ex colonie), e del resto l’Italia era ormai rientrata a pieno titolo nella comunità internazionale.[5]

Contemporaneamente al dibattito parlamentare per la presentazione del governo Segni si svolgevano i lavori della Conferenza di Ginevra dove il Ministero degli Esteri italiano aveva inviato in qualità di osservatore l’ambasciatore Massimo Magistrati, che ebbe modo di incontrarsi con tutti e quattro i ministri degli esteri dei «grandi». Il rappresentante italiano cercò soprattutto di capire quale atteggiamento stesse maturando nei confronti dell’Italia e il ruolo attribuito a quest’ultima dalle quattro grandi potenze.

A Ginevra venne dato particolare impulso all’attività del sottocomitato della Commissione per il disarmo delle Nazioni Unite, che avrebbe dovuto prendere in esame le proposte presentate nel corso della conferenza. A tal riguardo il Segretario di Stato degli Usa Foster Dulles espresse chiaramente a Magistrati tutto l’interesse del suo governo ad una partecipazione italiana ai lavori della commissione, seppur l’Italia non facesse formalmente parte dell’Onu. A questo inconveniente si sarebbe potuto ovviare, pur con notevoli difficoltà, tenendo conto del fatto che l’Italia era da tempo presente in quasi tutti gli istituti specializzati dell’Organizzazione e che, comunque, notevole era stato il suo contributo di idee per il controllo degli armamenti nei vari consessi occidentali. Anche il contatto diretto che Magistrati riuscì ad avere con il ministro degli esteri sovietico Molotov fu estremamente utile. Tra gli argomenti trattati emersero i rapporti italo-sovietici, il doloroso problema dei prigionieri di guerra ed il superamento delle difficoltà che si frapponevano all’ingresso italiano nelle Nazioni Unite. Riguardo a quest’ultimo punto, Molotov fece intendere al rappresentante italiano che in occasione della decima sessione dell’Assemblea generale il problema dell’ammissione dell’Italia sarebbe stato ripreso, anche se non fu chiaro se questo sarebbe avvenuto nell’ambito di un’ammissione limitata agli stati europei che già avevano sottoscritto i trattati di pace, oppure in quello di un’ammissione generale di tutti gli stati esclusi[6].

Da parte italiana si percepì chiaramente che a Ginevra si era aperta la strada per un definitivo accordo sul problema delle ammissioni all’Onu. Questa schiarita fece riprendere interesse ad una questione che era stata da tempo quasi accantonata dai governi succedutisi sopo l’ultimo Ministero De Gasperi e pressochè dimenticata dall’opinione pubblica. Il Ministro degli esteri Martino evidenziò questo ritorno di interesse da parte del governo al rientro in agosto da una visita ufficiale in Gran Bretagna, dichiarando che l’argomento principale delle sue conversazioni era stato appunto quello dell’ammissione dell’Italia all’Onu, in merito al quale gli interlocutori inglesi gli avevano assicurato tutto l’appoggio e la solidarietà che era giusto asppettarsi da un paese alleato e amico[7].

Incoraggiato dal nuovo corso della politica internazionale he aveva come base lo «spirito di Ginevra» e dalle assicurazioni avute a Londra e a Ginevra, l’on. Martino presentò alla Camera, in occasione del dibattito parlamentare sul bilancio degli Esteri, i risultati ottenuti dalla diplomazia italiana. Potè così tener testa all’opposizione che accusava il governo di scarsa incisività nelle sue richieste e, anzi, riuscì a contrattaccare con le seguenti parole: «…Desidero render noto alla Camera che l’Italia, nel caso in cui la questione delle ammissioni venga alla decisione delle Nazioni Unite, potrà contare sull’opera dei suoi amici ed alleati: le assicurazioni che essi ci hanno dato sono assai confortanti ed impegnative. Aggiungo che il governo italiano ha già fatto sapere che considererebbe un atto non amichevole quello dei governi che rendessero possibile l’ammissione di qualsiasi altro paese e non anche dell’Italia… »[8].

Palazzo Chigi impartì direttive in tal senso alle più importanti rappresentanze all’estero, in primis alla’ambasciata a Washington. Anche negli Stati Uniti numerosi ed intensi erano stati i contatti avutio dall’ambasciatore Brosio, da Ortona e dal rappresentante italiano a San Francisco Casardi, sin dal giugno ’55, quando, in occasione del decennale dell’ONU, si comprese che i tempi erano favorevoli alla conclusione della questione. Era chiaro che da questi incontri non ci si poteva attendere da parte americana una precisa assicurazione che il problema sarebbe stato senz’altro risolto in occasione della X sessione dell’Assemblea delle Nazioni Unite, ma essi servirono quanto meno a ravvivare l’interesse dei vertici statunitensi a ricercare una soluzione definitiva.

Il lavoro diplomatico dell’ambasciata a Washington, affiancato dall’opera dell’osservatore permanente presso l’ONU a Ginevra Renato Bova Scoppa, fu importante in quanto riuscì a suscitare l’interessamento del Segretario di Stato Foster Dulles. Questi, allo stesso Bova Scoppa che gli chiedeva di partecipare ad un pranzo con Molotov per discutere la questione dell’ammissione italiana, rispose: «pranzerei perfino col diavolo pur di risolvere quella questione»[9].

Le ragioni che portarono il governo italiano a tornare sui suoi passi e a svolgere un’azione diplomatica in grande stile per l’ammissione alle Nazioni Unite nei mesi che precedettero la decima sessione, furono senza dubbio molteplici.

L’Italia aveva tutto l’interesse, nella prospettiva del passaggio dalla guerra fredda alla distensione, ad essere presente in quell’organismo, punto d’incontro dei responsabili della politica estera dei vari paesi. Inoltre, c’era nel paese una forte corrente di opinione pubblica che manifestava una certa insofferenza per la limitata partecipazione italiana alla discussione di importanti questioni internazionali – ad esempio quella relativa al disarmo – ; e l’ingresso nelle Nazioni Unite poteva offrire la possibilità di soddisfare tale aspettativa. Infine, l’eventuale ingresso dell’Italia nelle Nazioni Unite, eliminando alcuni motivi di insofferenza dell’opinione pubblica e delle opposizioni, avrebbe contribuito a rafforzare la tradizionale politica atlantica, in un momento di delicata congiuntura politica interna[10].

 

La decima sessione dell’Assemblea delle Nazioni Unite si aprì in un’atmosfera pacata e distesa come mai si era verificato negli anni precedenti. I toni accesi e a volte fortemente polemici degli interventi dei delegati sovietici e statunitensi, che spesso si erano lanciati reciproche pesanti accuse, lasciarono spazio a parole equilibrate e a volte ottimistiche. Il problema della rappresentanza della Cina comunista fu rinviato di un anno senza eccessive opposizioni, nonostante fosse stato terreno di scontro tra le superpotenze nelle ultime sessioni[11].

In merito alle nuove ammissioni, le parole che Dulles pronunciò il 22 settembre davanti all’assemblea riunita sembrarono complementari a quelle di Molotov, dato che gli auspici del primo rifletterono i desideri del secondo, come se entrambi desiderassero una cosa senza però chiederla apertamente.

Queste furono le parole di Dulles: «…Io spero che durante questa decima sessione il Consiglio di Sicurezza e questa Assemblea prenderanno provvedimenti onde accogliere tali nazioni nella nostra organizzazione. In tal modo le Nazioni Unite inizierebbero il loro secondo decennio di vita meglio preparate a svolgere il loro compito…», a cui fecero eco quelle di Molotov: «…La situazione è assolutamente insoddisfacente per quanto riguarda l’ammissione di nuovi membri alle Nazioni Unite. Una serie di paesi in Europa, Asia ed Africa sono al di fuori di questa organizzazione, non partecipano al suo lavoro, sebbene vogliano aderire all’ONU…Si deve porre fine a questa ingiustizia, impedire la discriminazione contro certi paesi per spianare a tutti l’ingresso nell’Onu…ed è diretto dovere dell’Onu facilitare con tutti i mezzi il conseguimento di questi nobili obiettivi»[12].

In attesa del momento in cui tutte le buone intenzioni avrebbero potuto mostrarsi fondate e non solo di circostanza, non mancarono all’Italia segni di sincero appoggio da parte di quei governi che le erano sempre stati vicini sin dalla fine della guerra. Uno di questi fu il governo olandese che, attraverso le parole del suo Ministro degli Esteri Luns pronunciate il 29 settembre davanti all’Assemblea generale, mise in risalto la necessità e l’urgenza dell’ingresso dell’Italia in seno alle Nazioni Unite poiché se l’Europa doveva assolvere i suoi compiti, era necessario che fosse adeguatamente rappresentata all’Onu[13]. Anche il capo della delegazione americana presso le Nazioni Unite, Cabot Lodge jr., confermò il 20 ottobre la ferma volontà del suo paese di appoggiare ad oltranza l’ingresso di una delegazione ufficiale italiana all’Assemblea dell’Onu[14].  Il 2 novembre fu la volta del Foreign Office, che espresse il desiderio della Gran Bretagna di appoggiare l’ammissione all’Onu di diversi paesi «altamente qualificati» come l’Italia, Giappone, Spagna, Portogallo ed Eire[15].

Un contributo decisivo alla soluzione del problema dell’ammissione dell’Italia, venne da una delle menti più illuminate del panorama politico internazionale di quel periodo: il Ministro degli Esteri canadese, Lester Pearson. Lo statista canadese, dopo la sua visita a Mosca dei primi di novembre del ’55, dove si era recato per saggiare la posizione sovietica in merito al piano che avrebbe poi presentato all’Onu, si fece promotore di una risoluzione, a cui aderirono ben 27 paesi, richiedente l’ammissione in blocco di 18 stati, con la sola esclusione dei paesi ancora divisi, cioè le due Coree e i dei Vietnam. La missione di Pearson non poté essere che positiva in quanto dava piena soddisfazione alle tesi sovietiche, lasciando in sospeso la posizione degli statunitensi che, peraltro, anche in seguito alle pressioni italiane degli ultimi mesi si erano indotti a non opporsi alle ammissioni in blocco previste dalla risoluzione canadese[16]. La nuova posizione degli Stati Uniti, illustrata da Cabot Lodge negli stessi giorni in cui Pearson concretizzava la sua idea presentando il progetto di risoluzione canadese, era la seguente: accettazione di 17 dei 18 stati, voto favorevole a 13 di questi (quelli appoggiati dagli occidentali) e astensione per i 4 stati appoggiati dall’Unione Sovietica[17].

Se a metà novembre l’ostacolo dell’opposizione statunitense sembrava dunque superato, insorse però una intransigenza francese a mettere in pericolo la riuscita del progetto canadese. Il problema nasceva dal fatto che un folto gruppo di delegazioni afro-asiatiche aveva fatto mettere all’ordine del giorno delle discussioni anche la questione algerina, sperando in un intervento dell’Onu contro la politica francese d’oltremare e favore degli indipendentisti algerini. Parigi, avendo fiutato il pericolo di una simile discussione in seno all’Onu, ordinò alla propria delegazione di abbandonare i lavori finché non fosse stata cancellata l’iscrizione della questione algerina dall’ordine del giorno dell’Assemblea Generale. In caso contrario, la Francia aveva fatto chiaramente intendere che si sarebbe opposta con il veto all’ammissione in blocco dei 18 paesi prevista dal piano Pearson, perché quelle ammissioni spalancavano le porte a stati che avrebbero rafforzato i due gruppi anticolonialistici afro-asiatici e sovietico-comunista, da sempre contrari alla politica nordafricana di Parigi.

Da parte italiana fu avviata subito un’azione volta a convincere Parigi a recedere da questa posizione che, anche se indirettamente, avrebbe colpito in maniera grave l’Italia e, ancor di più, la solidarietà occidentale e la gracile politica europeistica. Per di più, un veto francese al blocco delle nuove ammissioni avrebbe posto il governo francese sullo stesso terreno di intransigenza interessata occupato fino ad allora dall’Unione Sovietica. Il problema fu risolto nel giro di pochi giorni poiché venne accolta la richiesta francese di cancellare dall’ordine del giorno dell’Assemblea generale la questione algerina, che venne rinviata ad una sessione successiva[18].

L’ultimo strascico del vecchio contrasto Stati Uniti-Unione Sovietica, rappresentato dall’opposizione americana all’ammissione della Mongolia Esterna, venne anch’esso eliminato, con piena soddisfazione dei responsabili di Palazzo Chigi, che ormai avevano definitivamente rivisto le loro vecchie posizioni legalitarie, sposando la tesi dell’universalità e delle ammissioni in blocco dei potenti[19].

In questo quadro di buone intenzioni la Commissione dei buoni uffici, dopo aver consultato i rappresentanti dei vari stati nel Consiglio di Sicurezza, ritenne di poter segnalare all’Assemblea Generale già da settembre che «se i membri permanenti non hanno modificato la loro posizione per quanto riguarda la questione dell’ammissione, sembra tuttavia che questa posizione non sia assolutamente immutabile e che essi siano disposti a tener conto dei cambiamenti intervenuti nei rapporti internazionali».

L’Assemblea Generale iscrisse la questione delle ammissioni all’ordine del giorno e la inviò alla Commissione politica ad hoc, che la esaminò nelle sedute tra il 1° e il 7 dicembre.

Il progetto di risoluzione canadese cui si è fatto cenno venne presentato a nome di ben 28 stati alla Commissione politica, che lo approvò nel suo insieme con 52 voti favorevoli, 2 contrari (Cina e Cuba) e 5 astensioni (Belgio, Stati Uniti, Francia, Grecia e Israele). Il giorno successivo, l’8 dicembre, con la medesima votazione si espresse anche l’Assemblea Generale in seduta plenaria che, «notato il sentimento generale espresso in numerose occasioni in favore della composizione più larga possibile dell’Organizzazione delle Nazioni Unite», trasmise la risoluzione al Consiglio di Sicurezza[20].

Dopo una serie di discussioni, il Consiglio di Sicurezza giunse ad esaminare il progetto di risoluzione il 13 dicembre. Quel giorno si sarebbe dovuta avere la decisione definitiva, se non fosse intervenuto il rappresentante della Cina Nazionalista con la proposta di ammissione della Corea Meridionale e del Vietnam Meridionale, che rimise in forse tutto il lavoro fin lì portato avanti. Infatti il veto sovietico a queste due repubbliche fece automaticamente scattare quello della Cina alla Mongolia Esterna e, di rimando, quello sovietico ai 13 paesi non comunisti.

L’intransigenza della Cina Nazionalista sull’ammissione della Mongolia Esterna si era manifestata già da alcuni giorni e sembrava essere diventato il problema centrale di tutta la vicenda, facendo seriamente temere che il tutto venisse rinviato ad un’altra sessione[21]. Fortunatamente il giorno successivo, 14 dicembre 1955, una nuova seduta del Consiglio di Sicurezza richiesta dall’Unione Sovietica risultò decisiva, come ha scritto Ortona nel suo diario, per «un nuovo voltafaccia sulla questione delle ammissioni». In effetti i sovietici cedettero sulla Mongolia Esterna, presentando però un progetto di risoluzione in cui si chiedeva l’ammissione di 16 dei 18 paesi originariamente previsti dalla risoluzione canadese, venendo escluso il Giappone assieme alla Mongolia Esterna[22].

Un emendamento americano, presentato nel tentativo di evitare il sacrificio del Giappone sull’altare di un accordo finale tra le superpotenze, venne respinto dal veto posto dall’Unione Sovietica, che vide invece passare la sua tesi.

Il progetto di risoluzione sovietico venne infatti approvato nel suo insieme e con votazione separata per ciascuno dei 16 paesi compresi nel pacchetto, risultando l’Italia ammessa all’unanimità. Lo stesso giorno, in seno all’Assemblea Generale convocata in seduta plenaria in seguito alla comunicazione dell’esito positivo del voto al Consiglio di Sicurezza, ben 41 stati presentavano questo progetto di risoluzione: «L’Assemblea Generale, ricevuta la comunicazione del Consiglio di Sicurezza in data 14 dicembre 1955, che raccomanda l’ammissione nelle Nazioni Unite dei seguenti paesi: Albania, Giordania, Irlanda, Portogallo, Ungheria, Italia, Austria, Romania, Bulgaria, Finlandia, Ceylon, Nepal, Libia, Cambogia, Laos e Spagna – esaminata la domanda di ammissione di ciascuno di questi paesi – decide di ammettere all’Organizzazione delle Nazioni Unite, i 16 paesi sopra enumerati». Messa a votazione la risoluzione, l’Italia risultò accolta con 59 voti favorevoli, nessun contrario od astenuto[23].

Con questo risultato unanime l’Italia riacquistava piena parità di diritti nella vita internazionale, venendo a scomparire le ultime discriminazioni che ricordavano ancora la sconfitta militare di dieci anni prima. Commentando la soluzione del problema, dopo quello di Trieste dell’anno precedente, la rivista «Esteri» elogiò l’operato di una politica estera «coerente e realista, di una politica che, al contrario di quanto troppo spesso avvenne in passato, mirava più alla sostanza delle cose che a soddisfazioni di prestigio»[24]. Era pur vero che la diplomazia italiana si era molto impegnata negli ultimi mesi per raggiungere il risultato voluto, ma non bisogna dimenticare il ruolo e l’azione paziente degli alleati che, come notò «Relazioni Internazionali», sfuggirono «alla facile tentazione di irrigidirsi dopo che l’esclusione del Giappone aveva mirato evidentemente a colpire gli Stati Uniti», facendo sì che «lo spirito di compromesso fosse ancora una volta prerogativa delle potenze occidentali»[25]

Quando la notizia dell’ammissione dell’Italia nelle Nazioni Unite giunse a Roma, fu accolta senza eccessivi toni trionfalistici da parte degli ambienti politici governativi. Il Presidente del Consiglio Segni affermò: «Sono lieto che sia pure tardi ci sia stata resa giustizia. L’ammissione all’Onu, anche se velata da qualche amarezza, premia la politica, cosciente del prestigio dell’Italia, praticata dal governo del centro democratico. L’opera di questo governo è stata ancora una volta premiata dal successo; ma godo soprattutto che sia stata riconosciuta la eminente posizione internazionale della nostra Italia»[26].

L’avvenimento non mancò comunque di scatenare una polemica tra il governo, sorretto dalla stampa indipendente e filo-governativa, e l’opposizione di sinistra, appoggiata dai suoi organi ufficiali. Le forti tensioni che caratterizzavano allora la vita politica italiana innescarono infatti una disputa sui meriti delle rispettive potenze referenti, riguardo alla definitiva soluzione del problema dell’ammissione dell’Italia all’Onu. Il Partico Comunista, attraverso il suo segretario Togliatti, attaccò il Ministro Martino ed il governo, rei di aver fatto un’ingiusta propaganda a favore degli Stati Uniti, facendoli apparire come i benefattori dell’Italia per aver consentito il suo ingresso nell’Onu, accettando il veto sovietico contro il Giappone. Togliatti sostenne che era stata la diplomazia statunitense, con le sue ingiuste discriminazioni, a bloccare per tanti anni la via dell’Onu all’Italia, mentre l’Unione Sovietica si era costantemente sforzata di aprirgliela[27].

Il leader del Partito Socialista Nenni considerò importanti le nuove ammissioni perché – si legge nelle sue memorie – esse andavano «a rafforzare il blocco anticolonialista afro-asiatico e il blocco neutralista», a dispetto del fatto che l’Italia sarebbe invece entrata a far parte dei «gregari» degli Stati Uniti come Romania, Bulgaria, Ungheria e Albania avrebbero aumentato la «schiera dei gregari sovietici»[28].

A sminuire la portata del risultato raggiunto dalla diplomazia italiana, secondo la «Rivista di Studi Politici Internazionali», venne anche l’azione di alcuni che, ripetendo dei luoghi comuni, presentarono l’ingresso italiano nell’Onu come di secondo ordine, per il fatto di essere entrati assieme ad altri 15 stati. A queste contestazioni, provenienti dagli ambienti nazionalisti, la stessa rivista rispose facendo notare che l’Italia non poteva vantare titoli preferenziali di ammissione rispetto ad altri paesi che si trovavano nelle sue medesime condizioni di ex-nemici. Era più che evidente, proseguiva la rivista, che l’accettazione statunitense dell’ammissione in blocco ebbe luogo proprio per «soddisfare una esplicita richiesta del governo italiano, di modo che, più che affermare che l’Italia era stata ammessa nelle Nazioni Unite insieme ad altri 15 candidati, sarebbe stato lecito dire che furono questi ultimi a venire ammessi per poter far entrare l’Italia»[29].

Nelle polemiche che seguirono il 14 dicembre, è difficile stabilire chi avesse del tutto torto o ragione, giacché tutti avevano buone ragioni per avallare le loro tesi e potevano giustamente contestare qualcosa agli altri. Resta tuttavia l’incontestabile fatto che la data del 14 dicembre 1955, solennemente celebrata con una cerimonia a Palazzo Venezia[30] alla presenza delle massime autorità dello stato, consegnò alla storia una nuova Italia che, con la soluzione del problema di Trieste e l’ingresso nelle Nazioni Unite, si affrancava definitivamente dall’eredità della guerra ed entrava a pieno titolo nella logica di cooperazione e collaborazione fatta propria dal massimo organismo mondiale.

Quell’ingresso – si è visto – fu ostacolato da una serie di fattori e situazioni che rivelarono l’estrema difficoltà dei nuovi rapporti internazionali all’indomani della rottura dell’alleanza di guerra tra Stati Uniti e Unione Sovietica. L’Italia, oltre a dover pagare le conseguenze della sconfitta militare, si venne a trovare nella ingrata posizione, condivisa con gli altri paesi sconfitti, di chi non avrebbe potuto autonomamente decidere del proprio futuro. La logica «spartitoria» ideata a Yalta non prevedeva compensi territoriali evidenti per i vincitori e non doveva nemmeno prevedere una pace mortificante per gli sconfitti (come accadde a Versailles), ma creava blocchi di influenza contrapposti, a cui anche l’Italia non poté sottrarsi. La scelta di campo dell’Italia, peraltro già «pattuita» a Yalta dai tre grandi, se servì a risollevare il paese dalle rovine e dalla fame della guerra, lo condusse a dover giocare un ruolo di pedina nel più ampio contesto dello scontro Est-Ovest e a doverne subire le note conseguenze.

Dalle vicende politiche che si sono analizzate, risulta evidente che l’ammissione dell’Italia all’Onu non fu resa difficile dal fatto che questa scelse di schierarsi con il blocco occidentale anziché con quello sovietico, dato che Ungheria, Romania e Bulgaria subirono dalle potenze occidentali lo stesso trattamento che l’Italia ebbe dall’Unione Sovietica. La difficoltà è invece da imputare a due ragioni:

1) la mancanza di volontà da parte delle due superpotenze di accordarsi, per il reciproco timore di pagare un prezzo eccessivo alla controparte;

2) lo scarso interesse anglo-americano a vedere l’Italia nell’Onu, dove sin dal 1948 avrebbe potuto difendere più efficacemente i suoi interessi in Africa, contrastando le mire di Londra e di Washington. Sembra quindi innegabile che la mancata ammissione dell’Italia nelle Nazioni Unite sin dall’immediato dopoguerra abbia favorito maggiormente i suoi alleati occidentali che non la parte avversa, la quale, trovandosi in una condizione di minoranza numerica nelle Nazioni Unite, «abusò» del veto quando si trattò di votare le ammissioni dei singoli stati, essendo questa una procedura che avrebbe ulteriormente indebolito la sua posizione.

In Italia, l’opinione pubblica e la classe politica stentarono a rendersi conto che la sconfitta militare aveva definitivamente cancellato le speranze, maturate dopo la prima guerra mondiale, di fare della penisola una potenza mondiale. Se in un primo momento il governo si impegnò a fondo per l’ammissione del paese nell’Onu, anche nella speranza di una vantaggiosa soluzione del problema coloniale, in un secondo momento si cominciò a considerare con maggior realismo la dimensione regionale della potenza italiana. Si guardò allora con minore interesse all’Onu e con maggiore attenzione all’Europa, quali ambiti in cui gli interessi dell’Italia avrebbero potuto essere perseguiti con maggiore probabilità di successo.

 

08.04.2022

[1] F.R., Conclusa a New York la IX Assemblea dell’ONU, Relazioni Internazionali, XIX 1955, 1, p.5. Il clima di distensione diede comunque nuovo vigore all’esigenza dell’ammissione italiana nelle Nazioni Unite. Non a caso Palazzo Chigi si rese conto di quanto fosse importante per un paese come l’Italia avere una rappresentanza diplomatica all’ONU in un momento storico in cui le discussioni ad alto livello internazionale potevano avere un riscontro concreto grazie al clima di distensione tra i blocchi.

[2] B.C., Il decennale dell’ONU e l’Italia,  in Relazioni Internazionali, XIX 1955, 26, p.676.

[3] L’alternativa socialista illustrata dall’On. Nenni, in Relazioni Internazionali, XIX 1955, 30, p.794.

[4] B.C., La Conferenza a quattro e la posizione dell’Italia, in Relazioni Internazionali, XIX 1955, 31, p.812.

[5] G.MARTINO, L’Organizzazione internazionale e l’Italia, in La Comunità Internazionale, X 1955, 2, pp.221-222 e Il rilancio dell’ONU, Esteri, VI 1955, 12, p.13.

[6] B.C., La Conferenza a quattro e la posizione dell’Italia, in Relazioni Internazionali, XIX 1955, 31, pp. 810 e 812.

[7] L’Italia e il momento politico internazionale, in Esteri, VI, 1955, 17, p.2.

[8] L’On. Martino illustra la posizione dell’Italia, in Relazioni Internazionali, XIX 1955, 40, p.1037 e L’ammissione alle Nazioni Unite, in Esteri, VI 1955, 18, p.24. Con le parole «altro paese» il Ministro Martino alluse chiaramente all’Austria, per la quale si profilò la possibilità di venir ammessa nelle NU subito dopo l’entrata in vigore del suo Trattato di pace, mortificando così l’Italia che per ben otto anni vi aveva fatto anticamera. Cfr., B.C., La politica italiana alla Camera, in Relazioni Internazionali, XIX 1955, 40, p.1026.

[9] E.ORTONA, Anni d’America: la ricostruzione (1944-1951), II, Bologna, Il Mulino, 1984, pp.141-145.

[10] Italia ed ONU, in Rivista di Studi Politici Internazionali, XXII 1955, 3, pp. 339-344.

[11] La decima Assemblea delle Nazioni Unite, in Relazioni Internazionali, XIX 1955, 40, pp. 1033-1034.

[12] Dulles analizza la situazione internazionale e La distensione e il disarmo in un discorso di Molotov all’ONU, in Relazioni Internazionali, XIX 1955, 40, pp. 1043-1049.

[13] Rivista Esteri, (sintesi avvenimenti internazionali), VI 1955, 19, p.30.

[14] L’ammissione dell’Italia all’ONU nell’opinione di Lodge, in Relazioni Internazionali, XIX 1955, 44, p. 1153.

[15] Rivista Esteri, (sintesi avvenimenti internazionali), VI 1955, 22, p.26.

[16] L.SALVATORELLI, La nuova fase della politica internazionale, in La Comunità Internazionale, XI 1956, 1, p.38; B.C., L’Italia dopo Ginevra, in Relazioni Internazionali, XIX 1955, 47, pp. 1231-1232 e rivista Esteri, (sintesi avvenimenti internazionali), VI 1955,22, p.27.

[17] Rivista Esteri, (sintesi avvenimenti internazionali), VI 1955, 21, p.29.

[18] B.C., L’Italia dopo Ginevra, in Relazioni Internazionali, XIX 1955, 47, p. 1232 e rivista Esteri, (sintesi avvenimenti internazionali), VI 1955,21, p.29. Ad onor del vero la Francia, sin dalla svolta anticolonialista di Palazzo Chigi del maggio 1949, cominciò a tener d’occhio la politica filo-araba del governo italiano e considerò con una certa preoccupazione la potenziale pericolosità delle sue iniziative a favore del mondo arabo una volta che l’Italia fosse stata ammessa alle Nazioni Unite. Cfr. B.BAGNATO, Vincoli europei echi mediterranei, Ponte alle Grazie, 1991, p.141.

[19] B.C., L’Italia nelle Nazioni Unite, in Relazioni Internazionali, XIX 1955, 52, pp. 1353-1354 e F.T., l’Italia all’ONU, Civitas, VII 1956, 1-2, p.91.

[20] M.VISMARA, Ammissione di nuovi membri nelle Nazioni Unite, in La Comunità Internazionale, XI 1956, 1, pp. 94-96.

[21] B.C., L’Italia nelle Nazioni Unite, Relazioni Internazionali, XIX 1955, 52, p. 1354 e M.VISMARA, Ammissione di nuovi membri nelle Nazioni Unite, La Comunità Internazionale, XI 1956, 1, pp. 119-121.

[22] E.ORTONA, Anni d’America: la ricostruzione (1944-1951), II, Bologna, Il Mulino, 1984, p.144.

[23] M.VISMARA, Ammissione di nuovi membri nelle Nazioni Unite, La Comunità Internazionale, XI 1956, 1, pp. 119-121.

[24] Un anno di politica estera, in Esteri, VI 1955, 24, pp.1-2.

[25] B.C., L’Italia nelle Nazioni Unite, Relazioni Internazionali, XIX 1955, 52, p. 1354

[26] L’ammissione dell’Italia all’ONU, in Esteri, VI 1955, 24, p.5 e B.C., L’Italia nelle Nazioni Unite, in Relazioni Internazionali, XIX 1955, 52, p. 1354.

[27] L’ammissione dell’Italia all’ONU, Esteri, VI 1955, 24, p.5

[28] P.Nenni, Tempo di guerra fredda, Sugarco, 1982, p.718.

[29] L’Italia nell’ONU, in Rivista di Studi Politici Internazionali, XXIII, 1956, 1, pp.4-5.

[30] Celebrazione dell’entrata dell’Italia nelle Nazioni Unite (interventi di Nicolò Carandini, Roberto Ago, George Palthey, Gaetano Martino e Antonio Segni), in La Comunità Internazionale, XI 1956, 1, pp.7-26.