Siamo testimoni di tempi bui, tristi, privi di motivazione interiore e di slancio verso qualcosa di più importante delle nostre singole esistenze. Tempi di riflusso, qualcuno li chiama; in realtà tempi in cui la fa da padrone il vuoto ed avanza implacabile la deriva nichilista, come un arido deserto in movimento, che dissecca tutto ciò che è vita. Intesa, questa, nel suo più alto, puro e naturale significato. Terribile quanto ignorata premonizione quella di un lucidissimo Ezra Pound, che scolpì sul bianco papello una delle più grandi verità dell’epoca contemporanea: “usura soffoca il figlio nel ventre arresta il giovane amante cede il letto a vecchi decrepiti, si frappone tra giovani sposi CONTRO NATURA Ad Eleusi han portato puttane carogne crapulano ospiti di usura”.
Potente sublimatore della parola, come un novello Michelangelo, il “folle” Pound brandì penna ed inchiostro scagliandosi contro il duro marmo delle cedole azionarie e della deriva finanziaria, eletta padrona di ogni forma di abilità e capacità umana. Oracolo senza tempio, colse l’avanzata del pattume finanziario, digestore implacabile persino della peggior economia, quella progettata per svilire le migliori opere di umana artigianalità: l’economia della catena di montaggio, delle produzioni di scala e delle utilità marginali, capace di trasformare gli uomini in automi. Eppure, alla fine, si trattava ancora di un’economia dove l’uomo si sentiva parte di un progetto e nella quale la finanza aveva un ruolo specifico: mettere il denaro al servizio di una visione, di una scommessa, di un’idea. Era l’economia della produzione industriale cara ai futuristi, quella che guardava alla modernità come strumento di redenzione da un’atavica arretratezza. Che produceva moderni ed avveniristici idrovolanti capaci di trasvolare ininterrottamente l’Atlantico o inventava soluzioni industriali futuribili.
Forse una condizione non proprio bucolica, ma alfine ancor umanamente accettabile. Il denaro aveva il suo ruolo di instrumentum regni, come quello che servì a finanziare i velieri votati alla conquista delle Indie. È naturale dunque che ci fosse chi, seduto al suo desco con i libri contabili alla mano, pensasse al ritorno di fiumi d’oro e ricchezze, ma c’era anche chi partiva verso l’ignoto con elmo e spada per cercare un mondo nuovo su cui lasciare un’impronta. Che poi quel segno fosse o meno eticamente accettabile non è interesse di questa riflessione, perchè in quelle imprese c’era pur sempre l’Uomo alle prese con sé stesso e con i suoi simili. C’era una tensione umana e spirituale che ardeva nei cuori e nelle menti di crociati, conquistadores, costruttori di nazioni o semplici avventurieri. Così come dei loro antagonisti e nemici. In uno scorrere naturale delle cose e degli eventi che tracciavano una linea logica: certo, spesso drammatica e crudele, fatta di soprusi, violenza e prevaricazione, ma pur sempre un percorso a misura d’uomo, ereditato dalla notte dei tempi. In esso il denaro era sempre e comunque non più di un mezzo per giungere a ben determinati fini.
Oggi non è più così. La postmodernita’ porta con sé un cambio totale di paradigma, nel quale il denaro è a tutti gli effetti il fine ultimo di ogni cosa. Al punto da essere diventato il fine di sé stesso. Potremmo dunque riconoscere di essere spettatori (e comparse) di una svolta copernicana che, forse, sarebbe meglio definire poundiana. Con una differenza non da poco: se Copernico riuscì ad avere ragione per le sue teorie nel breve volgere di qualche decennio, non ci possiamo aspettare la medesima sorte per le “visioni” del poeta americano. ” Usura soffoca il figlio nel ventre”: quanta ripugnante verità in una stringata riga. In essa si condensa l’essenza più profonda della contemporaneità: nazioni e popoli un tempo fari di civiltà ridotti a perire d’inedia demografica, e, allo stesso tempo, impastoiati in assurdi dibattiti su maternità surrogata e uteri in affitto a coppie omosessuali. Ed interi popoli di tutti i continenti, di paesi poveri come di ricchissime nazioni, alla catena del debito ad usura, strumento di dominio via algoritmi e bytes.
Non può essere questo il mondo che ci vede ospiti transitori. Non solo non v’è quella bellezza che “non si fe’ con usura”, ma è altresì assurdo l’intero meccanismo. Basta riflettere. Paesi ricchissimi come Giappone e USA e stati poverissimi come Sudan ed Eritrea accomunati da una cosa: entrambi portatori di un debito enorme verso le potentissime signorie del denaro. Ma c’è di più: in questa condizione versano quasi tutti i popoli del pianeta, più o meno pesantemente indebitati per intere generazioni a venire. Com’è possibile? Verso chi è questo debito? Quale meccanismo regola un paradosso che vuole l’aumento continuo del debito? Invero, la logica vorrebbe il contrario, perché non si è mai visto qualcuno che anela ad avere l’ufficiale giudiziario costantemente alla porta. Eppure con il debito degli stati e delle nazioni non è così: esso deve esistere e, anzi, deve aumentare se questo significa far crescere l’economia. Infatti, i peggiori problemi che oggi un capo di governo può essere costretto ad affrontare sono l’ampliamento della forbice dello spread, la sfiducia dei mercati (le borse) e la scarsa crescita del PIL. Al contrario, se invece questi marciano bene, sono rose e fiori e si può dormire tranquilli. Ma siamo sicuri che queste ‘ferree” regole dell’economia dopata dalla finanza e dagli indici di borsa siano poi così fondate? Proviamo a rifletterci un pò. Prendiamo il caso dei paesi UE come l’Italia: se lo spread è basso, il PIL cresce e le borse guadagnano, questi, sulla base dei parametri comunitari, possono automaticamente aumentare il loro indebitamento, giacché esso è legato all’andamento del PIL. Ma in tal modo continua a crescere anche il debito, i cui interessi devono essere ripagati, alimentando di continuo il debito in un circolo vizioso che vede l’indebitato sempre in salita a rincorrere inutilmente chi va più veloce. E ciò nonostante in linea teorica sia più ricco di prima, nell’assurda conseguenza che più sei ricco, maggiori debiti ti ritrovi.
A questo punto viene spontaneo fare almeno due riflessioni, che aprono interrogativi importanti:
1) quando è che un popolo può veramente dirsi ricco?
2) quanto conviene votarsi alla crescita continua se questo significa cadere nel buco nero dell’indebitamento permanente?
È su queste due domande che dobbiamo (ri)considerare l’idea complessiva della nostra posizione e pensare seriamente di invertire quel processo di bulimia finanziaria che sta infettando ogni attività umana. È del tutto ovvio che i due quesiti sopra esposti ci aprono un intero universo su cui riflettono e discutono da tempo economisti, filosofi, strateghi e decisori ad ogni livello. Eppure dai tempi della predizione di Fukuyama sulla fine della storia e sul trionfo del modello liberalcapitalista sono ormai trascorsi più di trenta anni, ma ciò che appare veramente inquietante è che quella vittoria non sembra averci fatto tagliare il vagheggiato traguardo del benessere diffuso a livello globale. Se, infatti, parliamo del benessere che si concretizza in condizioni di vita migliori per una vasta parte dell’umanità, in campo alimentare, sanitario e della giustizia sociale, dobbiamo in realtà riscontrare che è successo esattamente il contrario. Inutile riproporre diagrammi ben noti sulla sperequazione dei redditi pro capite in giro per il mondo e sulla disponibilità/consumo di risorse primarie. Ormai li conoscono tutti. E se aumentano le ragioni di attrito tra le nazioni più potenti al mondo, cosa che sta accadendo per ragioni lontane da motivazioni ideologiche, vuol dire che crescono le aspettative ed i bisogni di chi prima non aveva (o aveva poco) ed oggi vuole di più e di chi non vuole rinunciare ai suoi standard da tempo raggiunti. Con le conseguenze che il confronto serrato USA-Cina si sta sempre più acuendo. In senso generale, nella finitezza delle risorse disponibili, il “mostro faustiano” della crescita continua sta diventando una trappola senza via di uscita, che ci vede condannati a produrre, spendere, consumare sempre di più per essere strategicamente competitivi e, dunque, sempre più pronti a fronteggiare potenziali avversari. Ma proprio perché le risorse necessarie alla crescita reale sono limitate, è la finanza, con le sue alchimie da fattucchiere e stregoni, che inventa la ricchezza e la povertà, la crescita e la crisi, giocando sui numeri dei listini e su opzioni sempre più ectoplasmatiche. In realtà, di vero, concreto, tangibile, degno di valore secondo i normali canoni dell’esperienza, c’è solo una minima parte. Quasi tutto è costituito da numeri ed il vero potere è oggi gestito da chi detiene le leve decisionali per padroneggiare questi numeri. Al di là e ben oltre i facili complottismi che sanno tanto di copione cinematografico hollywoodiano e che servono a creare una platea ben precisa di autori, fruitori e adepti, sta una verità molto meno prosaica e più terra terra. Questa verità si chiama potere della finanza moderna: si tratta della facoltà che le leggi del liberismo finanziario riconoscono a coloro che gestiscono la vita stessa del denaro: la sua creazione, la sua circolazione, le modalità di impiego e financo la sua estinzione. Queste leggi sono intangibili, non si possono discutere o mettere in dubbio poichè è ormai accettato che l’invisibile mano del mercato non può e non deve avere limitazioni di nessun tipo. E quando c’è qualche limitazione è perché la facciata va comunque preservata, ma poi la sostanza resta sempre la stessa. Detto brutalmente, siamo vittime e schiavi di un dogma: il mercato, che come una divinità regola tutto e al quale va fatta assoluta professione di fede.
Ciò che sgomenta, semmai, è la consapevolezza che la gente comune ha di tutto questo. L’uomo della strada sa benissimo che in linea di principio le cose stanno in questo modo; eppure rimane passivo, ovvero accetta supinamente tutto, come se certe regole fossero dogmi su cui ben poco si può discutere. O al massimo si sfoga in inutili ed eterodirette manifestazioni di piazza che si sciolgono in un battito d’ali. Manca la forza o, se vogliamo, la capacità intrinseca di pensare alto e andare oltre. Manca la convinzione che sia logico pretendere, ad esempio, che la politica resti rigorosamente emancipata e svincolata da ogni forma di coinvolgimento diretto ed indiretto con la finanza; così del pari un vero dogma dovrebbe essere quello che rende impossibile ad un uomo o donna di Finanza di assurgere alle massime cariche di governo di una nazione. Purtroppo, l’attualità ci rende testimoni di quanto siamo lontani da questo scenario. Il solco siderale che separa le distorsioni di una realtà assuefatta alla finanza dai principi dell’economia a misura d’uomo è talmente introiettato a forza nelle volontà di tutti, che ormai siamo come l’animale abituato alla cattività: non conoscendo cosa è la libertà, non contempla altro al di fuori delle sbarre della sua prigione. I mercati pretendono stabilità finanziaria, sanitaria e politica e tutto si conforma a questo paradigma). Tutto il resto è accademia!
Serve dunque un colpo di reni poderoso che non può non partire che dai cervelli: occorre depurarsi dai condizionamenti generati da necessità indotte, il più delle volte inutili, quando addirittura non dannose. Occorre comprendere che non può esistere la crescita infinita per pochi e la miseria abissale per troppi, come, al contrario, non è accettabile un appiattimento standardizzato dei bisogni di un pianeta dove l’homo oeconomicus si aggrega in masse atte a gratificare le esigenze di produzione di scala e l’incremento dei profitti. Occorre spargere quotidianamente buoni semi nella speranza che qualcosa attecchisca; fare opera incessante di richiamo allo studio ed all’approfondimento; essere sempre pronti a smascherare ovunque i profeti del profitto.
Dai nostri cervelli deve partire la riscossa, che potrà esserci solo se ognuno di noi sarà in grado di pensare alto e andare oltre: solo allora potremo tornare ad Eleusi.
Fernando Volpi
28.03.2023