Gio. Nov 21st, 2024

Immaginiamo di salire a bordo di una macchina del tempo e di balzare a ritroso nel biennio 1344-45. L’Italia non è ancora una entità nazionale: è un groviglio di ducati, comuni, micro e macro regni e repubbliche, coinvolta in una crisi economica, sociale e politica che la vedrà epicentro di lotte intestine, di scontri feroci per tutto il secolo XIV, contornati da una epidemia di peste che caratterizzerà il secolo in questione.

In questo marasma socio-politico, la Letteratura (non senza fatiche) riesce a tenere ben salde le redini di un contesto “nazionale” sempre molto frastagliato ed infuocato. Nel caso specifico, Francesco Petrarca, sta vergando l’opera che occuperà tutta la seconda parte della propria esistenza e che i posteri considereranno come una delle colonne portanti della nostra Letteratura, il Canzoniere.

Il titolo originario dell’opera è Francisci Petrarche laureati poete Rerum vulgarium fragmenta, successivamente ribattezzata con il più ben noto “Canzoniere”, che consta di 366 componimenti poetici: 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali.

Non volendo entrare nel merito dell’analisi tecnica e metrica dell’opera, poniamo l’accento su di una canzone contenuta in essa, nello specifico la canzone CXXVIII (128), intitolata Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno. In questa lirica, meglio nota oggi con il titolo abbreviato di “Italia mia”, composta durante il biennio 1344-45, probabilmente durante la guerra tra Obizzo d’Este e i Gonzaga di Mantova nella città di Parma. Petrarca contempla e pone l’attenzione su di un primo ed ibrido spirito unitario, tessendo le lodi di una primitiva e passata incarnazione italica, attraverso un ricalco della già narrata e preoccupata visione politica della seconda metà del Duecento sottolineata da Dante Alighieri (come, ad esempio, nella Comedia, canto VI del Purgatorio, vv. 76-78) e di una rinnovata preoccupazione per l’allora situazione sociale, economica e politica della Penisola.

Già dall’apertura del componimento possiamo scorgere un accorato grido di dolore e di aiuto (“Italia mia), che ben ci fa capire quantoPetrarca, in questo lamento lirico, ponga l’accento sulla frammentazione politica dell’Italia del Trecento, suddivisa in piccoli stati regionali perennemente in conflitto e per le continue dispute territoriali tra i signori del tempo che, come ammonisce Petrarca stesso, “voi cui Fortuna à posto in mano il freno l de le belle contrade, I di che nulla pietà par che vi stringa, I che fan qui tante pellegrine spade?” (Voi, ai quali la fortuna ha messo in mano la guida delle belle terre d’Italia, di cui non sembrate avere alcuna pietà, che ci fanno qui tante spade straniere?). Straniere, perché proprio le ingerenze d’oltreconfine erano la causa, secondo il poeta fiorentino, del triste e doloroso sfacelo vissuto in quel periodo storico da quella che già lui definisce “patria” (nel contesto letterario e culturale trecentesco il concetto di “patria” aveva dei connotati linguistici diversi da quello in voga negli ultimi due secoli e mezzo), attaccando i signori del tempo perché si erano affidati ai mercenari stranieri che “ch’al corpo sano à procurato scabbia” (che hanno procurato una malattia al corpo sano).

Petrarca, cerca di tessere le lodi dell’Italia e della sua storia passata, citando esempi come Gaio Mario (“Mario aperse sí ’l fianco, I che memoria de l’opra ancho non langue, I quando assetato et stanco I non piú bevve del fiume acqua che sangue) o Cesare (Cesare taccio che per ogni piaggia I fece l’erbe sanguigne I di lor vene, ove ’l nostro ferro mise.)  e di elencarne le peculiarità geologiche e naturalistiche (“piacemi almen che’ miei sospir’ sian quali I spera ’l Tevero et l’Arno, I e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio; “Ben provide Natura al nostro stato, I quando de l’Alpi schermo I pose fra noi et la tedesca rabbia”)

Il poeta invoca più volte l’aiuto di Dio (“Rettor del cielo, io cheggio I che la pietà che Ti condusse in terra I Ti volga al Tuo dilecto almo paese.”) e cerca di darne una sorta di spiegazione spirituale (“Or par, non so per che stelle maligne, I che ’l cielo in odio n’aggia: I vostra mercé, cui tanto si commise). 

Il passaggio, a modesto parere dello scrivente, rimane quello in cui il poeta sviscera tutto il suo romantico, patrio e genuino amore verso la propria terra, ponendo una domanda che suona come un monito verso chi dell’Italia ne stava (sta) facendo “nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!”, citando il Sommo Poeta. Petrarca, quindi, si e ci chiede:

“Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria?

Non è questo il mio nido

ove nudrito fui sí dolcemente?

Non è questa la patria in ch’io mi fido,

madre benigna et pia,

che copre l’un et l’altro mio parente?”

(Non è forse questa la terra dove sono nato? Non è questo il nido dove sono stato dolcemente nutrito? Non è questa la patria a cui mi affido, madre benevola e devota, dove sono sepolti entrambi i miei genitori?)

Petrarca conclude la sua canzone con un monito sulla pacificazione in nome di un appello a non dividere l’Italia, perché soltanto la pace e l’unità potranno fungere da rimedi guaritori per la già ferita patria. Una pacificazione che possa portare ad un richiamo alla civiltà nazionale italiana, fondata sulla ben nota tradizione romana.

 

Giovanni Gallo

28.06.2022

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