La recente invasione del territorio ucraino, le sue conseguenze e quindi le sue origini, ci sottopone l’analisi di un processo geostrategico largamente diffuso e applicato negli ultimi decenni. È noto che l’inclinazione a schierarsi in un contesto geopolitico definendo implicitamente una frontiera fra “buoni” e “cattivi” è il frutto di una naturale empatia umana che stimola ogni individuo a perseguire quello che comunemente può essere definito il giusto. Quando si tratta di politica internazionale tuttavia è piuttosto puerile ed inefficace tentare di eseguire una divisione manicheista applicando i soli paradigmi occidentali. Chiunque sia intenzionato ad eseguire un’analisi più accurata degli scenari geopolitici passati, presenti e futuri, si vede costretto quasi sempre a districarsi nell’analizzare scenari sempre più complessi formati da reti di alleanze ed antagonismi, spesso contornati da revanscismi storici (che rendono ancor più difficile la lettura e l’analisi), ed il cui gradiente dei rapporti è scandito soltanto dalla possibilità di ottenere risultati funzionali alla causa del proprio schieramento.
C’è da dire che, in questo senso, i difensori della civiltà occidentale hanno una capacità che si rivela in molti casi l’arma vincente rispetto ad altri attori geopolitici – che in teoria dovrebbero rigettare questa unipolarità – che più e più volte hanno faticato a riconoscere. L’Occidente è pragmatico e si stringe attorno all’unico obiettivo di perorare la causa di organismi quali Onu e Nato, chiaramente eterodiretti dagli Stati Uniti, e conseguentemente da alleanze militari di volta in volta da loro guidate o suggerite. Non è quindi rilevante, se gli alleati di turno siano progressisti, conservatori, militari, ribelli, o perfino sedicenti gruppi antagonisti che si rifanno ad ideologie novecentesche. La verifica finale è soltanto quella di determinare se esiste la possibilità di sfruttare un determinato movimento o una particolare istanza in favore della propria causa, facendo diventare potenziale alleato chiunque abbia un fine che può essere condiviso, resettando anche in maniera brusca anche quelli che fino al giorno prima potevano essere dei paletti ideologici ben definiti.
Distinguo ideologici che invece, proprio alla luce di quanto affermato, vengono sfruttati su più fronti, innanzitutto per manipolare interi popoli o comunità a perorare la propria causa ideologica (talvolta anche nobile), ma che finisce, per eterogenesi dei fini, per diventare spesso l’obiettivo strategico di un belligerante geostrategico più che ideologico o culturale. In altra istanza il fine può essere ottenuto ponendo gli avversari in competizione fra loro in una gara (o peggio ancora in una guerra) che trascende rovinosamente in una spasmodica ricerca di divisioni interne, cavilli ideologici, interpretazioni messianiche per rendere l’ecosistema di chi prova ad opporsi ai dichiarati nemici il più frammentato ed eterogeneo possibile.
E’ un processo che osserviamo in molti degli attuali teatri di guerra sparsi per il globo, anche quelli più remoti e dimenticati nelle cronache mainstream. E’ un processo che andrebbe indubbiamente analizzato e compreso anche da larga parte dell’opinione pubblica.
Cristian Bocciarelli
11.04.2022