Lun. Set 16th, 2024

Giovanni di Martino

 

La depenalizzazione è un tipo di riforma giuridica che in Italia esiste dall’inizio degli anni ottanta. Il verbo “depenalizzare” è utilizzato periodicamente dai giornali nei periodi nei quali si allestisce, si discute e poi eventualmente si approva ed entra in vigora un provvedimento che depenalizza. Il senso comune – che i media riprendono e fanno proprio – che si dà al termine è quello dell’abrogazione. Quindi secondo il senso comune “depenalizzare” un illecito penale equivale a cancellarlo. In molti casi nulla è stato volontariamente fatto per limitare questa interpretazione, a volte proprio allo scopo di mettere in cattiva luce il depenalizzatore (il caso più risonante fu la campagna dell’opposizione con la quale nei primi anni duemila si reagiva ai tentativi di depenalizzare il falso in bilancio da parte del governo, facendo apparire appunto la riforma come il tentativo di cancellare un reato).

Cosa sia la depenalizzazione viene perciò sempre spiegato per sommi capi e facendo molto riferimento al significato a cui il senso comune del termine rimanda. Depenalizzazione, dunque, cioè togliere qualcosa dal penale (per esempio il reato di “guida senza patente” nella riforma del 2015, oppure l’ “oltraggio” in una riforma degli anni novanta). Qualcosa che era illecito penale (ossia reato) non lo è più. Ma non essendo l’illecito abrogato, e quindi cancellato, diventa un illecito non più penale. Diventa un illecito amministrativo, come scrivono i giornalisti più informati.

Riassumendo, per esempio, il reato di “guida senza patente” non è più illecito penale (ossia punito dal codice penale con un processo penale regolato dal codice di procedura penale in un tribunale penale), ma, essendo stato depenalizzato, diventa un illecito amministrativo (che non sporca la fedina penale, viene sanzionato dalle autorità amministrative e contro il quale si può ricorrere al TAR e al Consiglio di Stato in appello).

In base al senso comune quindi sembrerebbe che l’illecito depenalizzato diventi una cosa meno grave o, quanto meno, sanzionata meno gravemente. Una riforma dunque più favorevole a chi li commette. Sembrerebbe, perché l’effetto giuridico è invece contrario a causa di due errori grossolani che la depenalizzazione, da oltre quarant’anni, si porta dietro. Un errore di merito ed uno di forma.

L’errore di merito riguarda il tipo di illecito che il reato depenalizzato va a diventare. Un illecito amministrativo in teoria non ha senso, almeno in Italia. E questo per settant’anni è stato molto chiaro. Dal momento che, infatti, in Germania si depenalizza già alla fine dell’Ottocento, nei primi anni del secolo scorso il giurista Arturo Rocco (futuro estensore del codice penale) scrive un articolo intitolato “Sul così detto diritto penale amministrativo”, in cui prende le distanze dalla trasformazione degli illeciti penali in illeciti amministrativi, spiegando gordianamente che la sanzione, in caso di illecito, può essere di due tipi: risarcitoria/restitutoria, nel qual caso l’illecito è civile, sanzionatoria/afflittiva, nel qual caso l’illecito è penale. Non c’è spazio per una terza via, e quindi depenalizzare alla luce di questa distinzione è una forzatura. Questa posizione ha reso la dottrina italiana indipendente da quelle straniere per quasi un secolo, fino appunto alla prima famosissima legge di depenalizzazione,  la  Legge 689/1981. Fino al 1981 non c’erano state depenalizzazioni.

L’errore di forma è ancora più grave perché, lungi dal rendere meno pesante l’illecito depenalizzato, se ne espone l’autore ad una perdita di garanzie di cui altrimenti avrebbe goduto.  Gli autori degli illeciti penali, infatti, godono di alcune garanzie che derivano dalla delicatezza della materia. Questo punto è essenziale, ed è così importante che tali garanzie, previste dall’articolo 2 del codice penale del 1930, sono state assorbite dalla Costituzione nel 1948 negli articoli 25 (irretroattività della legge penale, legalità delle misure di sicurezza) e 27 (principio della personalità della responsabilità penale e della colpevolezza solo dopo il giudicato). Si tratta di principi obbligatori per gli illeciti penali che dunque, per non esservi soggetti, dovrebbero essere necessariamente abrogati. Invece la depenalizzazione non li abroga, ma li trasforma (una truffa delle etichette insomma), lasciandoli in vita e sottraendoli alle garanzie che la Costituzione prevede.

Nel 1980 un allora giovane studioso (oggi professore ordinario di diritto penale presso l’Università di Torino), Giorgio Licci, presentò un saggio intitolato “Misure sanzionatorie e finalità afflittive: indicazione per un sistema punitivo”, nel quale metteva in guardia sulla truffa delle etichette e sulla grave violazione costituzionale che la legge che si stava discutendo e che sarebbe entrata in vigore l’anno successivo avrebbe determinato. Con buona pace di un altro principio costituzionale (quello della libertà di stampa), in quell’occasione venne esercitata una vera e propria operazione di censura preventiva, impedendo la pubblicazione dell’articolo fino al 1982, ossia un anno dopo la pubblicazione della Legge 689.

La depenalizzazione come istituto è dunque anticostituzionale, in Italia per lo meno, e non può non stupire il fatto che venga sistematicamente approvata da un parlamento che annovera ad ogni legislatura qualche centinaio di avvocati.

09.01.2022